L’inflazione e il rallentamento economico cinesi preoccupano gli investitori esteri e così si chiudono numerose fabbriche straniere nel Dragone.
I recenti avvenimenti economici che riguardano la Cina fanno registrare un cambiamento di tendenze tra gli operatori commerciali dell’Occidente. Se fino a poco tempo fa la Repubblica Popolare era la meta prediletta degli investimenti esteri, tanto per un vantaggio economico quanto per prospettive di crescita, ora nuove difficoltà mettono in allarme le imprese.
Sebbene l’economia cinese sia trinata da un Pil ancora n crescita dell’8% secondo le stime ufficiali, l’inflazione, che si aggira attualmente al 6,5%, è una delle principali fonti di preoccupazione delle aziende. I prezzi dei beni di consumo aumentano vertiginosamente, soprattutto quelli dei generi alimentari, e di conseguenza i consumi calano e i lavoratori chiedono aumenti del salario. Nel 2007 il salario medio cinese era di 0,72 dollari l’ora, mentre si stima che nel 2015 arriverà a 8,16 dollari orari. In sostanza, si calcola che il vantaggio competitivo delle imprese occidentali presenti in Cina si riduce del 15% del costo del lavoro. Sono 265 le aziende che hanno già chiuso le sedi cinesi, tra cui note multinazionali: Wham-O, nel settore dei giocattoli, ha aperto i nuovi stabilimenti in California e Michigan; Catrepillar in Carolina del Nord e Flextronics in Messico, e Ikea ha ridotto del 20% i suoi acquisti in Cina.
Mentre il Dragone perde competitività, c’è chi, però, attira investimenti stranieri grazie a prezzi concorrenziali: si tratta dei nuovi emergenti come Vietnam, Cambogia e Indonesia, Paesi che offrono opportunità interessanti alla stregua della Cina di qualche anno fa, seppure con una perdita in qualità dei prodotti.
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