L’ondata di suicidi degli operai di alcune fabbriche cinesi, che lo scorso giugno aveva focalizzato l’attenzione internazionale sulla situazione dei lavoratori in Cina, non si è ancora fermata.
Un giovanissimo operaio migrante, impiegato come stagista presso la taiwanese Foxconn, fabbrica che produce componenti per i-Phone e i-Pod, si è lanciato dal sesto piano del dormitorio di proprietà della Chimi Innolux Corp (società sussidiaria dell’azienda a Foshan) nella provincia meridionale del Guangdong. Nella fabbrica della Foxconn di Shenzhen, anch’essa nella provincia del Guangdong, il numero degli operai che si sono tolti la vita è salito invece a 10.
Numeri pesantissimi che, spiegano gli analisti, vanno ricercati nelle pessime condizioni di lavoro e vita degli operai: i dipendenti, infatti, per riuscire a guadagnare uno stipendio di poco superiore ai 200 euro mensili, devono lavorare 7 giorni su 7 e sono quotidianamente costretti a fare straordinari, senza nemmeno poter parlare con il vicino di lavoro.
La Foxconn, tra le aziende produttrici di componenti elettronici, è un colosso a livello mondiale, possiede 20 fabbriche in Cina e impiega più di 800 mila lavoratori; solo a Shenzhen lavorano 420 mila persone, che producono circa il 70% dei prodotti Apple, oltre a componenti per Siemens, Nokia, Sony, Hewlett-Packard, Dell e altri. Per bloccare i suicidi e gli scioperi, le fabbriche avevano concesso ai loro dipendenti un aumento di stipendio e il governo centrale aveva chiesto agli investitori di proteggere i lavoratori migranti: tali provvedimenti si sono rivelati solo blande “misure-tampone”, inefficaci per la risoluzione di un problema strettamente legato a un boom economico che il Dragone ha raggiunto a caro prezzo, sia in termini ambientali, sia in termini di diritti civili.
Un giovanissimo operaio migrante, impiegato come stagista presso la taiwanese Foxconn, fabbrica che produce componenti per i-Phone e i-Pod, si è lanciato dal sesto piano del dormitorio di proprietà della Chimi Innolux Corp (società sussidiaria dell’azienda a Foshan) nella provincia meridionale del Guangdong. Nella fabbrica della Foxconn di Shenzhen, anch’essa nella provincia del Guangdong, il numero degli operai che si sono tolti la vita è salito invece a 10.
Numeri pesantissimi che, spiegano gli analisti, vanno ricercati nelle pessime condizioni di lavoro e vita degli operai: i dipendenti, infatti, per riuscire a guadagnare uno stipendio di poco superiore ai 200 euro mensili, devono lavorare 7 giorni su 7 e sono quotidianamente costretti a fare straordinari, senza nemmeno poter parlare con il vicino di lavoro.
La Foxconn, tra le aziende produttrici di componenti elettronici, è un colosso a livello mondiale, possiede 20 fabbriche in Cina e impiega più di 800 mila lavoratori; solo a Shenzhen lavorano 420 mila persone, che producono circa il 70% dei prodotti Apple, oltre a componenti per Siemens, Nokia, Sony, Hewlett-Packard, Dell e altri. Per bloccare i suicidi e gli scioperi, le fabbriche avevano concesso ai loro dipendenti un aumento di stipendio e il governo centrale aveva chiesto agli investitori di proteggere i lavoratori migranti: tali provvedimenti si sono rivelati solo blande “misure-tampone”, inefficaci per la risoluzione di un problema strettamente legato a un boom economico che il Dragone ha raggiunto a caro prezzo, sia in termini ambientali, sia in termini di diritti civili.
In un contesto lavorativo difficile come quello cinese l'imprenditore italiano deve mettere in conto le complesse normative della Cina, ma soprattutto i diritti dei lavoratori.
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